La collega Elisa Zane, ora ricercatrice presso il CREDDI, ha visto di recente pubblicato un suo lavoro inerente il fenomeno dell’abbandono universitario. La sua analisi ha prestato attenzione non solo ai dati, ma anche alle implicazioni educative e sociali.
Il focus della ricerca si concentra in particolare su una categoria poco visibile: gli studenti silenti. Si tratta di giovani che, pur iscritti all’università, faticano a maturare crediti formativi e restano ai margini del percorso accademico. La loro difficoltà, spesso invisibile, rappresenta un campanello d’allarme importante, perché può preludere all’abbandono definitivo degli studi. Secondo i dati del Ministero dell’Università e della Ricerca, nel 2021/2022 il tasso di drop-out in Italia si attesta attorno al 7%, segnando un incremento rispetto agli anni precedenti.
Questa realtà chiama in causa direttamente la pedagogia, sollecitandola a interrogarsi su come educare al benessere e costruire ambienti di apprendimento più inclusivi e accoglienti. Non si tratta solo di migliorare i numeri o i ranking universitari: l’abbandono universitario rappresenta una perdita di competenze preziose per l’intera società e una ferita nelle biografie dei singoli studenti, che rischiano di vedere compromesse le proprie opportunità future.
Zane propone una lettura complessa e multidimensionale del fenomeno. Le cause dell’abbandono vanno ricercate tanto nelle difficoltà individuali degli studenti — motivazionali, economiche, psicologiche — quanto nelle caratteristiche organizzative e culturali delle istituzioni universitarie. Modelli come quello dell’adattamento, quello strutturale e quello economicista aiutano a inquadrare il fenomeno, ma nessuno riesce a esaurirne la complessità.
Inoltre, la ricerca mette in luce come il tema del benessere studentesco sia strettamente collegato a quello delle future professioni educative e di cura. L’esperienza del burn-out non riguarda solo il mondo del lavoro: anche gli studenti, sotto pressione accademica e personale, possono sperimentare forme di esaurimento che incidono sulla loro capacità di apprendere e progettare il futuro. Coltivare il benessere durante il percorso universitario significa dunque non solo prevenire l’abbandono, ma anche formare educatori, pedagogisti e professionisti della cura più consapevoli e resilienti.
La pandemia ha reso ancora più urgente questa riflessione. Fenomeni come le “grandi dimissioni” e l’aumento dei NEET testimoniano un malessere diffuso che non può essere ignorato. L’università, allora, deve riscoprirsi come luogo di crescita integrale della persona: non solo trasmissione di saperi, ma spazio di libertà, dialogo e creatività.
Le strategie di intervento suggerite dalla ricerca vanno dalla promozione di programmi di tutoraggio e mentorship, alla costruzione di ambienti accoglienti, fino a un ripensamento più radicale delle pratiche istituzionali. È necessario investire nell’empowerment degli studenti, favorendo la valorizzazione dei talenti e delle capacità creative, elementi fondamentali per affrontare con flessibilità e innovazione le sfide del mondo contemporaneo.
In definitiva, affrontare il tema del drop-out universitario significa aver cura non solo dei dati, ma soprattutto delle persone che quei dati rappresentano. L’università che educa al benessere prepara non solo studenti migliori, ma anche futuri cittadini e professionisti capaci di contribuire, con responsabilità e passione, alla costruzione di una società più giusta e inclusiva.
Potete trovare la ricerca completa negli atti del convegno SIPED tenutosi a Perugia nel gennaio 2024 e pubblicati recentemente al seguente link: https://www.pensamultimedia.it/libro/9791255682806